Me lo avevano detto che era strampalato. Un tipo gerniale ma, proprio in
forza della sua intelligenza fuori dal comune, attraversato da una raffica di
fissazioni e di manie. Un vecchio signore dall’aria einsteniana, che viveva
nelle strettoie del labirinto di una casa trasformata in biblioteca. Con pile
altissime di libri accatastate lungo le pareti di ogni stanza, anche la camera
da letto e la cucina, perfino il bagno.
Mi presentai da lui con la sola
referenza di essere italiano. Conoscendo la sua predilezione, incondizionata a
detta degli amici, per il Bel Paese. Una passione per la musica e per l’arte, ma
anche per l’inventiva della nostra gente e per la sua creatività nelle faccende
di tutti i giorni.
“Un’invidiabile risorsa di vitalità” mi abrebbe detto a
commento, grattandosi la matassa dei capelli bianchi.
Era un di quei gelidi
gennai newyorkesi figli dell’Atlantico. Un inverno gi ghiaccio e vento, come non
se ne patiscono neppure sulle vette delle Alpi. Guanti e passamontagna, suonai
al palazzo in mattoni rossi di Gramercy Park. E la vista fu superiore a
qualsiasi aspettativa. Mi aprì un ometto tondo, infagottato in un numero
spropositato di maglioni. Mi guidò lungo la trincea pericolante, scavata dentro
il mucchio di libri come dopo una valanga.
Sapermi italiano gli aveva
dato l’euforia.
“Del bel paese là dove’l sì sona” citava Dante. Ne era un
lettore esperto e metteva in campo come un frullato di toscano letterario del
Trecento e di inglese puro yankee.
Mi chiese da quale città d’Italia
provenissi. E io, pensando che non la conoscesse, la localizzai nei pressi della
più famosa Venezia.
“Treviso?” si illuminò, storpiando il nome con la sua
stridula pronuncia. Subito dopo gorgheggiando, con mia sorpresa: “Benetton,
Benetton.”