Mecanoscrit del segon origen

Manuel de Pedrolo
Manuel de Pedrolo

(55) Entrambi aspettarono senza muoversi, con lo sguardo inchiodato sul corpo disteso e le armi in pugno, nel caso si fosse rialzato. Non colsero però alcun fremito nell’entità. Cinque minuti più tardi, dunque, abbandonarono il ciglio e, col dito sul grilletto, attraversarono il campo che li separava dalla masseria, rallentarono ancora quando furono nei pressi. La creatura, però, continuava a stare lì ferma, esanime. Due pallottole, lo videro subito, gli avevano perforato la schiena, mentre la terza si doveva essere persa perché quando fu sparata, lui stava già crollando. Dalle ferite usciva un liquido più chiaro del sangue umano, quasi rosa, che gli scorreva giù lungo il corpo. Sul davanti c’erano altri due fori; i proiettili l’avevano infatti trapassato e il terreno era zuppo. Lo girarono con la canna del mauser e riuscirono così a vedere da vicino

quel viso che combinava tratti umani, suini e persino quelli di un insetto: l’occhio sulla fronte infatti, che teneva aperto, era composto da faccette, come quelli delle api. Il corpo, invece, faceva pensare a un marsupiale per la sacca sul ventre. In essa trovarono una specie di targhetta, come una tessera, di un metallo leggero, incisa con una serie di forellini che disegnavano linee e punti triangolari, come quelli dell’apparecchio rinvenuto nel bosco, sebbene pure qui ce ne fossero altri, rotondi e di dimensioni variabili, in alto a sinistra.

All’apparenza la creatura era di sesso femminile, l’organo infatti, molto sporgente e del tutto privo di vegetazione, assomigliava a una vulva. Forse era la presenza della sacca marsupiale a costringerlo a una posizione tanto arretrata.

(56) Soltanto dopo un bel po’ Alba distinse la piccola sfera che, sfuggita dalle mani della creatura, era rotolata non distante da una pietra. Infatti subito aveva compreso che si trattava dell’oggetto poco prima colpito dai raggi del sole. Mentre lo osservavano, in un primo tempo senza osare raccoglierlo, videro che c’era un bottoncino, non più grande di una lenticchia e, a un quarto di giro di distanza, un buchetto più o meno delle stesse dimensioni. Il suo funzionamento sembrava abbastanza chiaro da far immediatamente esclamare a Dídac:

«Ho già capito come funziona. Pigi questo pulsante e il proiettile esce da questo foro. Proviamo?»

Ma non era così semplice, infatti prima di riuscire a far funzionare l’arma fu pure necessario scoprire un’altra zona della sfera sulla quale bisognava premere affinché il pulsante scendesse; era un dispositivo di sicurezza. D’altro canto, l’apparecchiatura

non sparava proiettili; ne uscì una scarica di fulmini che si distribuì a ventaglio e, in un nonnulla, incenerì silenziosamente i due alberi contro i quali avevano mirato, a otto o dieci metri di distanza. Non c’era dubbio che si trattava di un’arma terribile, ma non sapevano bene né come né con cosa caricarla; sulla sfera non c’erano fessure che consentissero di aprirla.

(57) Quella stessa sera, prima che facesse buio, scavarono una fossa a poca distanza dall’orticello e vi sotterrarono la creatura venuta da un altro mondo. Quando la afferrarono, si resero conto che non era per niente pesante, nonostante fosse robusta, benché di corpo corto. La loro attenzione fu richiamata anche dalle antenne, o quel che erano, accorciatesi fino a trasformarsi in una specie d’orecchio. Sulla tomba sistemarono un cumulo di pietre affinché il luogo rimanesse per sempre indicato. Probabilmente, disse Alba, si trattava del primo extraterrestre sepolto sul nostro pianeta.

(58) Dato che non sapevano se c’erano altre creature del genere nei dintorni e faceva bello, decisero di ritornare al bosco, nella grotta vicino al ruscello, dove sarebbero stati più sicuri. Questo supponeva la perdita di buona parte del frutto del loro lavoro nell’orto, ma tutti e due convennero che non potevano rischiare di rimanere nella masseria. Gli estranei, se ce n’erano altri, potevano sentirsi attratti dalle case, soprattutto se vicino c’era della terra coltivata, mentre non era credibile che, per

passatempo, s’addentrassero nelle montagne. Presero dunque con loro le cose assolutamente indispensabili e nel giro di due giorni, dopo tre viaggi, si sistemarono per tutta l’estate nel vecchio acquartieramento, dove ripresero la solita vita, ben consapevoli del fatto che, in ogni caso, sarebbe stato provvisorio. Per questo motivo stavolta non si preoccuparono di mettere insieme una riserva di cibo; all’inizio dell’autunno se ne sarebbero andati.

(59) Per tutto quel tempo scesero alla masseria soltanto due volte, a distanza di un mese l’una dall’altra. Avevano lasciato lì, come esca, quello che definivano orologio. Immaginavano che, se un qualche compagno del morto fosse capitato da quelle parti, se lo sarebbe portato via. Ed entrambe le volte lo ritrovarono, senza che apparentemente nessuno l’avesse toccato. Non si vedevano nemmeno impronte strane, né la tomba del morto era stata toccata. Cominciarono a pensare che la creatura sepolta, naufrago del disastro provocato dall’esplosione, fosse l’unico sopravvissuto. Questo non impediva che, altrove, ci fossero altri esseri come quello. Ma li consolava sapere che erano mortali e che si potevano sconfiggere.

Manuel de Pedrolo, Seconda Origine, Roma: Atmosphere libri, 2011, pp. 59-61.

Traduït per Patrizio Rigobon

Patrizio Rigobon